Mi sono accorto nelle ultime settimane, parlando con i pazienti e con i colleghi, che alla ‘novità’ del test genetico per il Linfedema primario  si sta attribuendo, forse, un eccessivo significato che, in realtà, non è e non deve essere così importante. E questo senza nulla togliere al valore dell’esecuzione del test stesso ed alla sua risposta, positiva o negativa che sia.

E’ soprattutto sbagliata l’aspettativa che si pone nel test stesso da parte di alcuni pazienti, almeno in questo momento, sia per quanto riguarda la conferma di una diagnosi clinica e linfoscintigrafica, che per il trattamento consequenziale.

Parlando con Matteo Bertelli poche ore fa, giustamente mi ricordava come di certe malattie ereditarie ulteriori soluzioni terapeutiche vengano scoperte, dalla ricerca scientifica, anche anni o decenni dopo la definizione del quadro clinico. Certamente, in questo caso, chi ha già eseguito il test si trova avvantaggiato potendo usufruire della ‘novità’ terapeutica tempestivamente rispetto a chi non è stato analizzato.

Tuttavia mi corre il dovere morale e scientifico (peraltro ho la responsabilità del coordinamento scientifico dell’Associazione) di ricordare ai pazienti ed alle famiglie che, in questo momento, siamo l’unico gruppo (direi ormai ‘rete’) nazionale ad eseguire questi studi, tra i pochissimi europei e gli ancor meno mondiali. Ciò comporta, innanzi tutto,  il disagio di tempi prolungati che trascorrono tra il prelievo, l’esecuzione della processazione del campione in laboratorio ed il successivo referto finale. Sono tempi che dipendono necessariamente anche dal bisogno di contenere i costi e quindi di raggruppare più campioni (considerato, peraltro, che il test stesso non comporta spese per il paziente).

Nella prima processazione dei campioni, inoltre, vengono studiati (con sedici operazioni diverse che richiedono tempi lunghi) i due geni (VEGFR3 e FOXC2) più frequentemente chiamati in causa da ciò che oggi è meglio conosciuto nella Letteratura scientifica mondiale al riguardo. Ma noi stiamo solo scoprendo la punta di un Iceberg. L’incidenza di circa il 9% di test positivi sui campioni finora raccolti in Italia ci dice infatti che, a differenza delle statistiche nordamericane che parlano di 35-40% di incidenza, stiamo parlando di fattori che possono variare anche in funzione dell’etnia e della razza. Ne parlavo a Malmo con il Professor Rockson della Standford University che concordava con me su questo principio. Dobbiamo quindi non fermare il nostro studio solo ai primi due geni ma esten

derlo, in tempi successivi, ad altri geni e ad altri ancora (per questo parlo della sola punta di un Iceberg). Questo non significa che il test sia inutile o di impossibile interpretazione. Quando è positivo è senza dubbio positivo e questo comporta dei ‘vantaggi’ per il paziente. E’ di pochi mesi fa la notizia che ad un paziente di una ASL della periferia di Roma (che era sempre stata ostile al riconoscimento della malattia), solo a seguito della positività dell’esame è stata riconosciuta l’invalidità, corredata dalla fornitura degli indumenti elastici prescritti.

Un altro aspetto che mi sta a cuore chiarire è il discorso della familiarità dell’affezione. Nella nostra casistica abbiamo trovato positività al test genetico, ad esempio, nel padre e in una zia di un piccolo paziente, apparentemente sani. Esiste quindi il discorso della possibilità di una positività genetica con negatività della presenza della malattia. In questi casi si parla di ‘Genotipo’ positivo con ‘Fenotipo’ negativo. Cioè positività della mutazione genetica che non si accompagna, necessariamente, alla manifestazione clinica della malattia. Questo è un aspetto che si trova frequentemente nelle malattie a trasmissione genetica (cosiddette ereditarie) ed in questi casi si parla di Malattia ‘a penetranza incompleta’: cioè, non è detto che la mutazione presente nell’individuo determini inderogabilmente la malattia; così come non è detto che se la malattia è manifesta in un genitore debba necessariamente trasmettersi al figlio oltre che genotipicamente, anche fenotipicamente, cioè con malattia conclamata.

Facciamo quindi tutti un piccolo passo indietro. Continuiamo a studiare i campioni dei soggetti scrupolosamente selezionati in base al criterio clinico-anamnestico (questo è un altro importante problema che si pone in caso di un corretto studio genetico: la selezione accurata degli individui da ‘testare’), ma facciamola con ‘serenità costruttiva’, senza fretta nel pretendere le risposte e, soprattutto, senza attribuire a queste, in un senso o nell’altro, un significato ‘Assoluto’ ed inderogabile.

I primi passi su un terreno poco conosciuto sono sempre incerti; i primi movimenti sull’acqua sono ancora più incerti. Ma, immaginate come sarebbe oggi il mondo se non ci fossero state persone come Cristoforo Colombo?

 

Un cordiale saluto con il dovuto rispetto di sempre.

Sandro Michelini

 

LEAVE A REPLY